Psicologia e Sport: la concentrazione
Dopo un primo intervento che ci ha introdotto nella mente dello sportivo(per leggere il precedente articolo clicca qui), oggi torniamo in compagnia della D.ssa Marica Malagutti per parlare della concentrazione, e definendo il concetto dei due “Sé”.
Si parla tanto di distrazione, sia in ambito scolastico che lavorativo, ma soprattutto nello sport.
Spesso si sente dire: “non ho fatto bene una verifica perchè c’era troppo rumore in classe”, oppure “non ho inviato un’importante mail di lavoro perchè avevo troppe cose da fare e mi sono dimenticato“, o ancora, dopo una partita, nello spogliatoio, è facile sentire: “non ho fatto punto perchè per un attimo mi sono distratto, ho perso la concentrazione e l’avversario ha vinto”.
Ma che cos’è la cosìdetta concentrazione?
In generale può essere definita come quell’azione che permette di convergere in un punto o in una zona ristretta persone, cose o elementi della stessa natura, allo scopo di riunire ciò che prima era disperso o diffuso, o per ottenere un determinato effetto.
La concentrazione mentale è quindi quell’attività che permette di fissare con intensità il pensiero su un oggetto, un’azione o uno scopo. Si può affermare infatti che chi, avendo un buon allenamento ed è ben concentrato in gara, avrà sicuramente una buona performance sportiva.
Che cosa dunque può condizionare la concentrazione di un atleta?
Parlando da un punto di vista fisico, possiamo cominciare a prendere in considerazione le abitudini che abbiamo assunto con l’apprendimento del nostro sport. Se cambiamo allenatore perchè, ad esempio, entriamo a far parte di un’ altra squadra, o semplicemente avanziamo nella nostra carriera sportiva, possiamo trovarci nella situazione in cui dobbiamo modificare la postura o alcuni movimenti al fine di migliorare la nostra prestazione. Ecco allora che la memoria del corpo può giocarci brutti scherzi e, mentre facciamo una partita, il nuovo apprendimento interferisce con quello precedente. La concentrazione in questa occasione si sposta, anche solo per un attimo, dal gioco, al nostro movimento. In quell’attimo perso, il punto può essere fatto dall’avversario.
Dal punto di vista psicologico, invece, un fattore determinante, che può diminuire la concentrazione e di conseguenza la prestazione sportiva, può essere costituito dall’ansia di perdere.
L’ansia è uno stato psichico dovuto a conflitti interiori, che si manifesta con una forte preoccupazione e paura non proporzionata alla situazione in cui si trova l’individuo. Mentre la paura attiva meccanismi di difesa nelle persone, quindi azioni ben organizzate e finalizzate alla sopravvivenza, l’ansia provoca azioni vaghe, non specifiche o addirittura immobilismo.
L’ansia nello sport riduce la prestazione intaccando non solo la concentrazione, ma anche la motivazione.
Siamo abituati a pensare che se vinciamo, acquistiamo un valore per la nostra squadra o per il nostro allenatore. Gli amici, i parenti i tifosi ci apprezzano. Ma quando perdiamo che cosa sentiamo? Non sempre siamo capaci di vedere i nostri errori come opportunità di miglioramento. Spesso pensiamo di non essere adatti a quello sport o che la sfortuna ci perseguita. Dimentichiamo che il nostro valore è al di là delle partite vinte o perse e soprattutto che, se siamo concentrati sulla nostra volontà di vincere, perdiamo l’attenzione sul presente e quindi sull’azione del gioco.
Timoty Gallewey, capitano del Tennis Team di Harvard e discepolo del guru Maharaj Ji, esprime con il concetto dei due “Sé” il pericolo che corre ogni atleta quando giudica se stesso. Il Sé1 è giudicante e dice al Sé2 cosa fare. Spesso Gallewey sentiva i suoi allievi parlare con se stessi “Dai Tom! Colpisci la palla!…Non essere goffo!” ecc.
La cosa da fare per aumentare la performance sportiva e quindi migliorare la relazione tra i due Sé.
Se Sé1 non ha fiducia in Sé2, tutti gli sforzi di quest’ultimo vengono boicottati. Gallewey fece un semplicissimo esperimento con una sua allieva che prendeva lezioni per giocare bene a tennis e nello specifico eliminare il fatto di colpire la palla con il telaio della racchetta. La signora desiderava che suo marito giocasse con lei nel doppio, non per dovere, ma per piacere. La prima cosa da notare quindi, è che la motivazione non era nel gioco stesso, ma nell’apprezzamento di suo marito.
Ma davvero importante è stato il fatto che solo quando l’insegnante fece spostare l’attenzione dal come migliorare la sua prestazione alla riga della pallina, come poteva essere per un qualsiasi altro particolare, lei comiciò a colpire in modo corretto.
Che cosa era successo?
L’attenzione sul giudizio della propria prestazione si era semplicemente spostata su qualcosa d’altro. Sé1 giudicante si era neutralizzato, mentre l’azione di Sé2 diventava fluida e corretta. In questo modo, tra l’altro, Sé1, vedendo un miglioramento di Sé2 acquistava fiducia e automaticamente la relazione tra i due Sé migliorava sempre più, aumentando in modo importante la qualità sportiva.
Straordinario è il fatto che ogni qualvolta che spostiamo l’attenzione dal giudizio su noi stessi, le nostre azioni diventano più fluide, ci rilassiamo e le cose sembrano andare per il giusto verso.
Questo non è vero solo nello sport, ma anche in ogni attività umana.